Giovanna Spantigati

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Paure incontrollabili

I miei articoli

Il treno scorre silenzioso sui binari, attraversa una campagna umida e grigia, la nebbia si confonde con la sottile pioggia di fine gennaio. Friuli, Veneto, il treno avanza. Il mio posto a sedere è rivolto verso la campagna che il nostro viaggio si lascia alle spalle. Uno sguardo stanco verso il passato. Un passato di quindici giorni. La vita che, nello spazio di un attimo, si ribalta e ti sbatte violentemente a terra. Ma tutto scorre, inesorabilmente. Nel giro di pochi giorni le misere certezze su cui si fondava la mia vita si sono sfaldate e si sono aperte prospettive di orizzonti carichi di angoscia. Dopo venti anni, un altro intervento all'occhio. Il verdetto è stato implacabile. Il giudice - austero e senza comprensione - ha emesso la sua sentenza. La vita ha sbattuto il martelletto sul tavolo. Senza esitare.
Bisogna operare.

Dopo venti anni. Un corpo forte, ma martoriato allo stesso tempo, ecco che ti mostra una falla. "L'intervento è urgente. Qui in Italia, ma forse sarebbe meglio negli Stati Uniti…" E mentre tu ascolti queste parole della dottoressa al telefono la tua mente ripercorre un viaggio nel tempo; è una sequenza di fotografie che, come il montaggio di un film non può omettere, ti riportano a galla tutto ciò che hai cercato di dimenticare negli anni. Rivedi gli ospedali, rivedi le attese davanti alle sale operatorie, rivedi la tua angoscia. Si ritorna indietro. Forse il pianto può servire, si, in effetti è uno sfogo. E' necessario. La dottoressa, dall'altro capo del filo, ti ascolta paziente e aspetta che tu smetta di piangere.

"Ieri sera l'occhio di Emanuele era diverso… " per gli altri non sarebbe stato nulla di strano, nessuno se ne sarebbe accorto se non un oculista… o una madre. Come scrisse il noto neuropsichiatra infantile Giovanni Bollea, le madri hanno sempre ragione. Nel senso che capiscono subito. Le madri non sbagliano. E molto spesso arrivano prima di esami ed indagini mediche. "Questa mattina ho ricontrollato l'occhio. No, c'è qualcosa che non va." E a quel maledetto o benedetto punto, dipende da quale prospettiva guardi, scatta la reazione. Prima fai finta di non vedere, di non capire, speri che sia un errore, ti attacchi a vane illusioni, speri nei miracoli e non è un modo di dire; ci speri proprio. Ma poi subentra la forza che ti dà la certezza che quel qualcosa è proprio andato storto e la spinta a voler risolvere. Al più presto. Il legame con l'istinto di sopravvivenza si rafforza e la reazione è decisa. Il dubbio e la negazione lasciano il posto all'azione.

E prendi il telefono in mano perché vuoi una spiegazione. La tecnologia ti aiuta, puoi persino mandare la foto di un occhio stranamente arrossato ad una dottoressa che vive a 500 chilometri di distanza. Solo lei può fare la giusta diagnosi. Solo lei ti può rassicurare. La conferma di quello che temevi è quasi un sollievo. Non si può vivere nel dubbio angoscioso; si deve sperare di poter risolvere. La parola intervento evoca in me tutto ciò che mi ha resa ipocondriaca, ansiosa, emotivamente instabile. La paura dei dottori, di entrare negli ospedali, persino negli studi medici. Persino un piccolo taglio o una macchia sulla pelle sono diventati anticamera di morte. Una tosse o un mal di pancia dei miei figli, ormai adulti, mi lascia insonne. Qualunque minimo sintomo diventa un mostro con cui convivere. Anni di antidepressivi ed ansiolitici non hanno mai cancellato dalla mia memoria i solchi neuronali della paura. Affiorano senza che la razionalità possa intervenire. Prendono il controllo nel mio cervello e nel mio corpo.

A volte mi chiedo: ma sono solo io ad essere così o succede anche ad altri? Si, il neuropsichiatra mi dice che è assolutamente normale nella mia situazione. Ma io non lo voglio, tutto questo bagaglio di sinapsi impazzite. Solchi nel cervello che si ripercorrono ogni volta che si ripresenta una situazione che porta al ricordo. Non lo voglio. Ho smesso la terapia antidepressiva, sono orgogliosa di me stessa. Ma chissà a cosa serve essere così presente a me stessa. In fondo non lo sono. Dipendo dai miei incubi, da paure consce ed inconsce . Nemmeno così sono libera. Stiamo tornando a casa. La nebbia se n'è andata, ora c'è il sole….

E' come se questo treno emergesse dalla terra profonda e si proiettasse come un siluro verso l'alto. Un viaggio in verticale. Lasciamo gli inferi, andiamo verso la luce. Lasciamo in fondo alla terra le lacrime brucianti, il viaggio dell'andata, l'ospedale, l'intervento, l'attesa, la notte a tenergli una mano sul petto per rassicurarlo, le visite di controllo, sbirciare le espressioni dei medici durante la visita, il ricovero prolungato di un giorno, altra notte accanto al suo cuore, i pasti quasi saltati, i controlli, finalmente l'uscita. Il soggiorno prolungato nell'albergo di una città a noi estranea, per quanto bella, il rientro in ospedale, la visita di controllo, la fuga verso la stazione…. Via, via, VIA! Si parte. E poi ti viene da sorridere.

È andato tutto bene. E ti chiedi perché l'hai affrontato con così tanta angoscia, quando tuo figlio stesso era deciso, tranquillo, coraggioso ed è entrato in sala operatoria ridendo…. E ti riprometti di non spaventarti più, e ti dici: "In futuro voglio essere più forte, non voglio più reagire così negativamente e lasciare che la paura prenda il sopravvento. E' sciocco, è infantile, è irrazionale." Ma in realtà sei solo stanca e non hai nemmeno più voglia di avere nessun pensiero di nessun tipo. E vuoi arrivare a casa, alla normalità. Già… normalità… ma cos'è per me la normalità? Nulla a che vedere con una vita normale. Assolutamente nulla. La mia è una vita estranea ai canoni di normalità. All'inizio era persino estranea a me stessa. Ora ci convivo. Per me E' la normalità. Ma una normalità anche di sofferenza. Il treno va sempre verso l'alto, mio figlio è sereno e non vede l'ora di riabbracciare i suoi cani… si, lo so… successe anche a me.

21 anni fa, uscendo dall'ospedale dopo aver partorito un bambino che era chiamato "l'aborto", entrai in casa e mi lasciai cadere per terra, per abbracciare il mio cane. Ricordo quella gioia ed il pianto liberatorio che seguì. Ricordo gli occhi del mio cane. "Io sono qui - sembrava che mi dicesse - Ora andrà tutto bene." Il treno si libra nell'aria, leggero. Il centro della terra si allontana sempre di più, lo strazio di una madre non c'è più... Ora si guarda verso la limpidezza del cielo azzurro e si torna a far progetti. Come l'anestesia che richiede qualche giorno per essere smaltita, anche questa esperienza richiede tempo per dissolversi. Ancora tre ore di viaggio, il paesaggio cambia. Lombardia, fra poco Piemonte. Sto sorridendo. Sto pensando agli occhi dei miei cani. Sto pensando alla gioia di rientrare in casa, di mettermi in cucina ai fornelli per preparare - finalmente - una cena per la mia famiglia. Mi sembra di sentire già il profumo del cibo… Sto tornando. Sto tornando ad essere io. Sta tornando la mia allegria, la mia forza, la mia ironia, la mia voglia di sorridere. Eccomi, mondo, eccomi, vita, arrivo. Scusate se sono stata assente un attimo. Probabilmente sono solo un essere umano. Ma sicuramente un essere umano che non dimentica l'amore per la vita e la joie de vivre. Mio figlio sta sonnecchiando. Il cielo è tornato grigio. Ma del sole io non ne ho più bisogno. L'ho ritrovato dentro di me.

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